Haiti Freelance

il ritorno. di Radical Shock

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Giunge all’ultima puntata il racconto delle mirabolanti avventure haitiane dei quattro moschettieri freelance.

Mentre inviati speciali italiani di grandi testate nazionali vanno a scopare a Santo Domingo coi soldi del giornale, dichiarando al mondo di raccontare l’inferno di Haiti, i vostri reporter preferiti si smazzano per tirare su i soldi del biglietto aereo. Probabilmente abbiamo sbagliato noi. E del resto come si fa a resistere alle puttane ragazzine dominicane? Bisogna capirli questi anziani inviati speciali. È una vita dura, piena di stenti, sempre con la valigia pronta per partire nei luoghi più disgraziati della terra, è ovvio che uno cerchi il conforto e la tenerezza tra le cosce mercenarie di giovani minorenni di qualche paese sottosviluppato.

Ci tocca raccontare queste cose oltre alle vicende di un popolo dimenticato da dio. Anzi. Non è che dio l’abbia dimenticato, come sostiene un signore haitiano con cui mi faccio una chiacchierata. È che qui facciamo il vodoo, la magia nera, e allora dio è arrabbiato e ci punisce. Ma allora cristo, se lo sapete la volete piantare co sta cazzo di magia nera? Dico, che altro deve fare sto dio per dimostrarvi che vi odia?

Gli ultimi giorni è un accalcarsi di tende per l’arrivo di forze fresche delle varie agenzie ONU. Servono menti riposate per affrontare tutti quei briefing. Accorrono inviati speciali da tutto il mondo, dopo ormai una settimana dall’inizio della festa. Tutti in cerca di storie nuove, di angolature diverse, creative, che nessuno ha ancora raccontato.

È tempo di andarmene, di abbandonare la mia casa, il cartone sul pratino, e di tornare al Distrito Federal, con questo magone che comincia a salire, a prendere forma. Perché uno stando lì nel mezzo dell’azione non può permettersi di sentirsi male. C’è l’adrenalina, la tensione, le mille cose da fare, da scrivere. Si è lucidi, razionali, operativi. La merda arriva dopo. Arriva per esempio quando il Principe, ormai a casa, viene a sapere che sua zia è morta, e si rende conto che ognuna delle singole 200 mila vittime era una zia, una mamma, un figlio, per qualcuno. Ognuno di quei cadaveri scomposti e putrefatti era una persona. Ma quando sono così tanti, quando è così diffuso l’orrore non li vedi come cristiani. Li vedi quasi come pezzi del paesaggio.

Lascio questo paese con un nodo in gola. Con il desiderio di restare, per continuare a raccontare una terra senza speranza, vittima delle forze della natura, dell’ottusità di eserciti che cercano di spartirsela mettendosi addosso la bandiera degli aiuti. Non posso restare perché non me lo posso permettere. Perché non ho un giornale che mi paga le troie. Devo rientrare in Messico, scroccando il passaggio di un Cessna che fa avanti e indietro da santo domingo.

Lascio Cutie e il Principe a continuare a scattare foto. Immagini atroci e bellissime, se si può parlare di bellezza qui. La foto più inquietante è quella di una bambina, fatta dal Principe in un ospedale. Invece di essere frantumata, amputata e sofferente, la bambina piange, ma perché è appena nata. La foto di un parto, tra tutti questi morti, ha un effetto straniante. Senti che è bella, è potente, ma non puoi fare a meno di chiederti che cazzo c’entra la vita in questo posto.

E invece c’entra. Questo posto è pieno di vivi. Che forse si meriterebbero un po’ di attenzione pure loro.

Torno a casa e trovo Vittorio. il toro di cartapesta che ancora non ha capito un cazzo di come funziona il mondo. Lo metterò su un cargo per dar da mangiare a qualche haitiano.
Trovo gli amici, che mi chiedono com’è stato. Che mi dicono come si fa a adottare un haitiano. Io non riesco a non rispondere che, beh, è stato da paura, del resto il Caribe è pur sempre il Caribe, una favola.

Per quanto riguarda le adozioni. Ho deciso di adottare due bambine haitiane di vent’anni. Per solidarietà con il popolo fiero dell’isola e anche un po’ coi colleghi inviati speciali. Due piccioni con una fava.

Written by radical shock

gennaio 31, 2010 a 5:09 am

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